sabato


TORNANDO CASA - di Avikal E. Costantino
frammenti, senza una sequenza temporale, momenti che hanno avuto un significato, esperienze che hanno aperto comprensioni, eventi in cui mi sono perso o ritrovato e attraverso cui condivido me stesso e il mio percorso. Ognuno di questi momenti e’ stato una svolta, un riconoscere e un lasciare andare, e un arrendermi ad una intelligenza molto più grande di me, quella della vita.
Frammento n.1
Avevo undici anni quando per la prima volta mi accorsi con certezza che non avevo più casa.
In qualche modo - sentito nelle viscere e nel cuore, ma rifiutato nella mente - mi ero allontanato da casa, a volte a passettini, a volte con salti enormi, e avevo perso la direzione.
C’era dentro un distante ricordo che affiorava con il tocco leggero, improvviso e misterioso, di una malinconia, di un desiderio sconosciuto.
Ero seduto su un divanetto o qualcosa del genere, quando mi accorsi di non essere più a casa.

Qualche giorno prima era morto mio nonno.
Ricordo me stesso seduto su un tappeto ai piedi della sua poltrona preferita, nel suo studio. Sul tavolino tra le altre cose c’erano due statuine che solo più tardi, parecchi anni dopo, seppi riconoscere come due raffigurazioni del Buddha. Una era non so bene di che materiale, nero, con il Risvegliato rappresentato nella sua forma cinese: col pancione, la testa calva e due orecchie grandi grandi e sorridente, abbagliante nel sorriso, così innocente e deliziosamente solleticante a
sfidare ogni pesantezza e serietà. L’altra statuina era di una pietra soffice, con la pelle del Buddha di un pallido avorio e gli abiti di un blu verde. Lui qui era più smilzo, la forma più delicata ed aristocratica, il sorriso più misterioso. Vive con me oggi, montato su un sostegno di legno, di mogano viola, che ho lisciato io, con le mie mani e un gran piacere.
Mio nonno era morto ed io non versavo neppure una lacrima.
Avevo amato molto quell’uomo dallo sguardo sereno ed acuto, eppure non una lacrima.
Fu allora che mi accorsi di essermi perso. E non fu perché non piangevo, bensì perché sentivo che nessuno poteva capire perché non ci fossero lacrime e “com’e’ possibile che non piangi?”
Un senso disperato di solitudine e diversità mi avvolsero come un mantello, stavo seduto lì annichilito, dicendomi dentro che dovevo essere diverso e che non avrebbero capito e che se non piangevo non appartenevo, e intanto le lacrime non uscivano.

Vent’anni dopo sono seduto su una sedia, in una stanza d’appartamento a Città del Messico. Sul tavolo di fronte a me ci sono tutti gli oggetti di un rito magico contro il malocchio. Candele bianche e rosse, uno specchio, erbe varie, del filo, denti di giaguaro, un bicchier d’acqua
con il rosso di un uovo dentro, altre cose che non ricordo.
La curandera - guaritrice e sciamana, una donna meticcia di media età - si alza all’improvviso e venendomi vicino fa grandi segni di commozione e mi ringrazia, e mi ringrazia, perché ho benedetto la sua casa. Sono sorpreso e non capisco fino a quando lei mi spiega, tutta
eccitata, che ho portato con me due spiriti-guida e che questo e’ molto raro.
So chi sono. Uno e’ il nonno per cui non avevo pianto ma che avevo
sempre sentito vicino, insieme alle statue del Buddha.

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